La forma dei pensieri (2001)












Dalla mostra “La forma dei pensieri” Caltagirone, dicembre 2001
Prefazione al libro di Giovanni Chiaramonte
Nella luttuosa cornice che delimita un quadrato, oltre l’informe trapassare dal nero al bianco attraverso il grigio, si impone la sagoma oscura e funerea di un’urna dal cui interno si irradia il movimento di cinque scalini ombreggiati di foglie.
Inizia così l’intensa sequenza di Angelo Zzaven intitolata La forma dei pensieri.
Un pensiero che non riflette la forma esterna del mondo, un pensiero che non rispecchia la realtà visibile dei luoghi e dei gesti degli uomini quale è stata osservata e descritta sinora dall’appassionata visione di autori come Nicola Scafidi, Enzo Sellerio, Ferdinando Scianna, Giuseppe Leone, Letizia Battaglia, Sandro Scalia.
Il pensiero che muove la fotografia di Angelo Zzaven non vuole essere un pensiero sul mondo o un pensiero del mondo quanto un pensiero che cerca di porsi come pensiero assoluto, come pensiero primo che precede e genera ogni possibile e diversa forma di pensiero.
La sequenza di Zzaven continua così con immagini dove le forme del visibile, una ringhiera, un ramo, un selciato, galleggiano sopra un magma astratto ed informale come distorte proiezioni prive di qualsiasi concretezza e tangibilità: immagini che possono essere realizzate senza      obiettivo e senza macchina fotografica come le straordinarie ricerche di Paolo Monti e Nino Migliori effettuate alla metà del secolo scorso.

Seguendo e superando l’apertura del conterraneo Carmelo Bongiorno verso la rappresentazione dei sentimenti e delle emozioni interiori, Zzaven prende definitivamente le distanze dal visibile e si mette alla ricerca di quel totalmente altro che sembra giacere invisibile al di là degli occhi e che è percebile soltanto al pensiero che è oltre qualsiasi pensiero ed è oltre il pensiero di qualsiasi cosa. Bongiorno rappresenta la realtà guardandola da una dimensione battesimale, contemplandola “attraverso il filtro dell’acqua lievemente increspata”: nelle sue immagini le forme e le figure del mondo appaiono in questo modo sulla soglia del nascere e del morire, tra l’alfa e l’omega della loro esistenza, corpi di luce circondati da un buio profondo senza fine e i luoghi, le persone, le cose non sono rappresentate nell’istante dello loro pienezza, ma sono colte nell’attimo aurorale del loro farsi e nell’attimo mortale del loro disfarsi. Immerso nel nero assoluto, nell’acqua mistica del nulla, da questo punto senza consistenza eppure reale, il fotografo catanese interroga la luce interna che sembra sostenere la vita di tutto ciò che gli appare davanti agli occhi e, grazie a questa luce, nella sua opera più recente a tutto restituisce nome ed esistenza.
Zzaven invece non vede nelle forme del mondo alcuna presenza da preservare, né luce alcuna da custodire o nome da ricordare. L’io dell’uomo, l’identità della persona, si dissolve così nel labirinto senza uscita di un’avvolgente spirale che coincide con il margine ultimo e insuperabile del quadrato. In un’immagine che diventa scrittura noi leggiamo soltanto una parola: me.
Me, non io, non l’uomo e la sua vita come soggetto, bensì l’uomo come vittima di una creazione che si avvolge su se stessa senza inizio, senza fine, senza destino.

Gentile pensiero di
Jean clode Lemagny

Spesso i titoli di esposizione di un libro sono delle evocazioni poetiche (volte) al sentimentale, al limite delle opere stesse e della loro realtà materiale, realtà che solo conta nel dominio dell’arte.
Ma qui il suo titolo : “La Forma dei Pensieri” designa precisamente quello che lei ha fatto.
Tutta l’opera d’arte di valore affronta una impossibilità (un problema). Qui si tratta di fotografare i pensieri. Non si può fotografare quello che succede ma fotografare i pensieri andati – anche (quelli), che noi non possiamo vedere, quelli immateriali.
Le parole “la forma dei pensieri” vengono qui prese alla lettera. Non vogliono dire niente. Questo perché non abbiamo ancora cominciato a dire qualche cosa. (Non siamo giunti) al momento in cui si giustifica l’espressione “questo non vuol dire niente” . Come quando noi rispondiamo a colui che ci interroga sul senso di un quadro illustrato, sulla capacità di gettarsi da un mondo in cui le cose si dicono verso un mondo dove le cose sono la’ (esistono). Certamente non ci si va mai.
L’artista, lui, ci va. Ed è per questo che può incaricarsi di spiegare una frase assurda.
Resta il fatto che una foto è fatta di forme materiali. C’è cosi necessariamente una trasposizione che va dallo spirituale al concreto. Come è possibile?
Henri Facillan mi ha detto che tutto è forma, anche il pensiero. E’ vero. Un pensiero ha una struttura , un movimento. Noi possiamo rappresentarlo con degli schemi, con delle curve visibili ma che non sono (precisamente) più dei pensieri. E’ chiaro che ci siamo allontanati dal nostro proposito iniziale. Questa trasposizione non è altro che quella di un segno, come la lettura di una cifra che non ha un senso se vista al di fuori del codice a cui appartiene e che non ha altro che un rapporto arbitrario con quello che il codice denota. Niente è più lontano da un segno che una foto.
E’ (esiste) il bisogno di dire che non si tratta di allegorie , che rappresenterebbero le idee di graziose dame? Proprio cosi si è fatto per molto tempo ma (adesso) non si fa più.
La trasposizione qui non è altro che quella di un simbolo (cara a Nelson Goodman) che mette una cosa al posto di un’altra che la evoca (richiama) senza tuttavia esserlo. Ci si può cosi avvicinare ai limiti dell’arte poiché le corrispondenze tra le forme sono infinite e le macchie su un sassolino possono fare pensare a un cielo (dipinto su) tela. .
Ma l’arte non è interamente simboli, e anche allora (anche se lo fosse) supererebbe la nostra definizione. Non è solamente l’insieme possibile di tutte le cose ,anche distanti, dal reale. C’è un’origine nello spirito.
E’ qui che al di la del segno e del simbolo lo spirito ci fa ribattere sulla definizione di “equivalente”. L’equivalente non ha più nessuna somiglianza con quello di cui è l’ equivalente, ma tuttavia, gli corrisponde .
La mia battaglia è sempre stata quella di affermare che la fotografia possedeva una ricchezza di materia e che, senza questa, non poteva essere un’arte. (Infatti) la riguarda, ne è il corpo del visibile. E’ una parte essenziale della fotografia. Giovanni Chiaramonte ci mostra (come) la sua ricerca si piazza all’estremità degli sforzi dei numerosi fotografi italiani in questo senso. Lei la spinge all'estremità va a ritornare al problema domandando alle forme di lasciar vedere lo spirito. Al di la di questo pensiero attraverso le forme , che definiscono la spiritualità dell’arte , lei vuole toccare tramite l’occhio il pensiero in se stesso. Attraverso il cammino dell’equivalente”. Io ignoro se questo è possibile. Io mi rifaccio al fatto che un pensiero è sempre pensiero di qualche cosa. “Il pensiero” è l’astrazione di una astrazione. Come può un’immagine arrivare sino a la?
E’ certo che le sue immagini sanno evocare quello che evoca il profondo della parola “pensieri”. Lei ci tocca attraverso le sue luci che mostrano il fondo e le albe, attraversando lo spessore di una materia buia e che, di fatto, le esprime e le rivela.
E’ bene , infatti noi ci conficchiamo nel più profondo della materia poeticamente, plasticamente, o scientificamente a tal punto da sentirci il più possibile vicini al pensiero in se stesso. Noi non possiamo realmente vederlo in faccia ma lo sentiamo vibrare al contatto con la rugosità della realtà.
Lei va sino a dove è possibile arrivare nella sfida contenuta nel suo titolo. Il punto principale, finalmente, è l’essere giunti alla domanda : “che cosa è il pensiero?”. Martin Heidegger risponde: “Pensare veramente è pensare che noi non pensiamo ancora. Noi non possiamo parlare della bellezza ma possiamo solo parlare dei suoi pretesti.”





Dalla mostra “La forma dei pensieri” 2001
Caltagirone, dicembre 2001 – Postfazione al libro di Giuseppe Condorelli

L’uomo è sia una macchina per controllare il caos, sia un propagatore di disordine. Come ogni fenomeno caotico “sotto controllo relativo” oscilla incessantemente fra stati imprevedibili mentre il suo comportamento statistico generale rimane pressoché stabile, come l’acqua che bolle. (Maurice G. Dantec)
L’incessante e proficuo impegno di ricerca, che ne ha contrassegnato gli anni della formazione, ha condotto Angelo Zzaven da uno scatto mediato - frutto dello studio minuzioso delle scuole fotografiche, della lezione dei grandi maestri e di sapiente mescolanza fra intuito e razionalità - ad una nuova e profondissima stagione del suo operare e, quindi, ad una fotografia la cui impronta lascia suggerire una vera e propria metafisica dello scatto.
Il “pensare per immagini” del Nostro Autore è ormai definitivamente lontano dall’oggettivo e concreto interagire con la realtà che ci sta davanti agli occhi. E’, piuttosto, un pensiero fotografico dilatato verso un limen della coscienza, soffuso ed apparentemente discreto, ancorché carico dei reperti interiori di chi ha rivolto l’obiettivo dentro.
“Un altro modo - conferma lo stesso Zzaven - di guardarsi allo specchio”. Quello stesso specchio “dotato di memoria” che è la fotografia secondo la definizione di Oliver W. Holmes.
Nelle immagini de “La forma dei pensieri” si liberano, infatti, fortissime componenti autoreferenziali. Sono rappresentazioni astratte e suggestive, prossime alla composizione pittorica, oli estratti dalla memoria personale.
Si riportano in questo libro l’inchiostro lontano e sbiadito di una lettera, le volute barocche di un’inferriata, quelle austere di un balcone, l’anta appena accostata dalla quale il chiarore di un pianterreno muore in una polvere diffusa (tentativi di fuga? infantile paura dell'oltre? percezione della fine?).
Ed ancora, il lucore di soglie, radure, ombrose scalinate sbrecciate, accecanti usci, cieli imprecisi (tragitto casa sepolcro?) e le panchine affondate nella sabbia di un tempo dalla quale le forme dei pensieri affiorano con la densità lieve e corposa, profonda ed imprecisa, dei ricordi e dei flashback e con l’ossessiva ripetizione di frattali pulsanti di vita. E sono sempre i flussi di fiumi immaginari, i segni di una topografia cerebrale incerta ed al contempo dettagliata, i cui incessanti mutamenti sono degni di Moebius.
Non c’è, però, nelle fotografie di Zzaven nessuna oltranza nostalgica, nessuna celebrazione del rimpianto. “La forma dei pensieri” sfugge alla semplicistica emozione della compassione se non altro perché la referenzialità di queste immagini è già stata percorsa e fruita, sedimentata dalle spirali degli eventi e stratificata da incisioni, graffi, bruciature, sfregi, sorta di manipolazioni fisiche e inconsce allo stesso tempo, che trasfigurano la singola fotografia avvicinandola ad una luminescente emanazione sinaptica.
Protagonista assoluta d’ogni fotogramma rimane la luce che tenta di ordinare il caos con un movimento d’onda oscillante tra istinto e ragione.
E se l'apparentemente laboriosa decifrazione può confondere l’occhio, ad un guardare più attento, “La forma dei pensieri” di Zzaven – pur costruita con sequenze nelle quali gli individui sono praticamente distanti, sottratti ad ogni fisicità, quasi assenti – si rivela invece una sorta d’album delle reminiscenze collettive, proprio perché indeterminate sono le nostre reminiscenze, ugualmente vago il tentativo di riappropriarcene se non nei contorni incerti della visione.
Ecco perché Zzaven sceglie l'eccesso tormentato dell’informe e dell'evanescente come se le sue immagini fossero sempre sul punto di dileguarsi. L’Autore suggerisce, allora, ellissi di desiderio senza nome, i luoghi e gli oggetti materiali ed immateriali trasfigurati di un tempo: tagli scabri ed essenziali delle stagioni di un individuo che continua a sperimentare la meraviglia e il dolore di essere nel mondo.



Nessun commento:

Posta un commento